Angeloga e il rifugio Chiavenna
Prerogativa dell’andar per monti è l’atavico, interiore desiderio di vedere di più e più lontano, di aprire lo sguardo e l’animo agli ampi spazi offerti dalle alte vie. L’uomo del terzo millennio spesso costretto a spazi minimali e ai viali “canyon” delle fumose città vive di soli sogni, di meravigliose ma effimere immagini pubblicitarie televisive. Tuttavia, tali chimere possono diventare realtà, valli amene o selvagge, coloratissime e odorose distese di fiori, le delicate tinte dell’alba e i caldi toni di infuocati tramonti sono dietro l’angolo, a qualche ora di cammino. Un’opportunità per dar corpo al bisogno di evasione e liberare lo spirito è l’escursione in proposta, adatta veramente a tutti, con l’unica accortezza di sfruttare la frescura mattutina in quanto questo sentiero, magnificamente esposto a ovest, nel periodo estivo è già pienamente soleggiato dalle nove del mattino e considerando il dislivello da superare nel tratto del “calvario”, può risultare veramente faticoso per i meno allenati.
Lasciata la SS dello spluga a Campodolcino (m 1070), raggiungiamo con una serie di tornanti il solivo abitato di Fraciscio (m 1341) e poco oltre le caratteristiche baite della frazione Soste (m 1442), ove si può parcheggiare.
In direzione (E) appena oltre l’area di parcheggio si stacca una strada sterrata. La percorriamo per alcune decine di metri cercando sulla nostra sx la palina indicatrice che ci permetterà di percorrere il sentiero originale posto qualche metro sopra la carreggiabile. L’antica mulattiera si snoda attraverso un bel bosco di larici e risale la valle della Rabbiosa fiancheggiando per un buon tratto l’omonimo torrente. Lasciamo il bosco e su terreno ora pietroso, prendiamo quota percorrendo il lato destro orografico della valle, superando alcuni costoni e un torrentello sino a raggiungere un bivio (m 1620). Ignoriamo la traccia che si addentra nel fondo valle (E) ad una piccola chiusa e pieghiamo invece a sx, affrontando così il tratto più impegnativo dell’escursione, “il Calvario”. Con il giusto impegno, procediamo sino ad un caratteristico intaglio roccioso detto “la Pizeta” (m 1900). Apprezzando la vista del pizzo Stella che occhieggia alla nostra destra, proseguiamo su più agevoli pendenze raggiungendo una valletta percorsa da un placido torrentello. Una scritta sulla parete alla nostra sx ci avvisa che mancano dieci minuti al rifugio. Costeggiamo ora il ruscello sino a superare un’ultima balza che adduce alla magnifica piana di Angeloga (2039).
Il “luogo degli angeli” è veramente tale. L’ardita ed elegante piramide del pizzo Stella che, vanitoso, si specchia nelle cristalline acque del lago, le suggestive baite, coloratissime distese di rododendri, il silenzio sovrano rotto dall’eco riposante di campanacci e armenti al pascolo, rievocano un’interiore quiete e ritmi di vita ormai dimenticati. Imperativa una sosta presso gli ospitali Beatrice e Claudio gestori dello storico e confortevole rifugio Chiavenna. Il rientro per lo stesso itinerario, oppure percorrendo un traverso lungo il versante meridionale del pizzo Groppera (nord-ovest) verso l’alpe Motta, per poi scendere a Fraciscio. Enrico Minotti.
Angeloga con gli occhi di un bambino
Uscivamo la mattina presto dalla casa del signor Simeone a Fraciscio, dove stavamo a pigione per tutta la stagione estiva. La mamma davanti con l’abito estivo di tutti giorni e un golf di lana, che faceva freddo finchè non usciva il sole. Ai piedi le ciabatte con la suola di sughero e il tacco appena accennato, che erano comode per andare in montagna e la “sporta” di stoffa pesante rossa, punteggiata da minuscoli fiorellini neri con i manici bianchi di plastica, contenente i panini e l’aranciata per il pic nic in riva al lago e che portavamo su dandoci il cambio, che pesava.
Ancora non sapevo che l’Angeloga è il luogo degli angeli, ma mi piaceva lo stesso, anche se a volte mi sembrava troppo lontano. Come smarrito in un sogno, seguivo l’ombra di mia madre mentre le evanescenti nebbie mattutine si dissolvevano ai primi raggi di sole. Ovunque fiori, forse esempio massimo della grazia che la natura può donare ad un essere vivente. Lietamente salivo e il rumore di acque scorrenti e leggeri freschi vortici di vento scendenti dai monti mi avvolgevano, portandosi via ogni pensiero e fatica. Fantasticando, gli occhi fissi ai profili delle creste che immaginavo un giorno di percorrere, abbacinato da fulgidi contrasti di prati fioriti e maestose scure pinete, inebriato dal profumo del granito e degli aghi di pino sotto il sole mi inerpicavo, leggero, su per il “ Calvario”. Si raggiungeva così il lago, disteso in una magnifica piana totalmente priva d’alberi e cosparsa di macigni affioranti dalla bassa vegetazione, un soffice e compatto manto di erbe come una sorta di macroscopica muffa, costellato tutto intorno e su per i versanti da sfavillanti drappi di velluto rosso e rosa dei rododendri.
Fra le baite, i silenzi solenni, il bel lago, il granito, i rododendri e il cielo azzurro sempre sereno dell’infanzia, il soave suono della voce di mia madre nell’aria cristallina che, chiamandomi, dolcemente allungava le vocali del mio nome. Al lago che magicamente riflette lo Stella, le montagne d’intorno e i miei smarrimenti giovanili, capace di evocare suggestioni ed eccitare l’allora mia vergine fantasia, di volta in volta sono tornato, ansioso, per vedere e accertare, rinfrancandomi, che l’immagine che mi ero costruito e cerco di conservare in me esiste davvero e mi appartiene. Enrico Minotti